handbike

Vittorio Podestà Lavagna (Genova), classe 1973

Ingegnere civile e ciclista per passione, nel 2002 è vittima di un infortunio stradale tornando a casa dal lavoro. Da allora si dedica a tempo pieno all’handbike, con cui raggiunge molteplici successi. Nel 2006 entra nella Nazionale e due anni dopo vince un argento alle Paralimpiadi di Pechino. Dalla Paralimpiadi di Londra 2012 riporta a casa due bronzi e un argento a squadre

Ingegnere civile e ciclista per passione, nel 2002 è vittima di un infortunio stradale tornando a casa dal lavoro. Da allora si dedica a tempo pieno all’handbike, con cui raggiunge molteplici successi. Nel 2006 entra nella Nazionale e due anni dopo vince un argento alle Paralimpiadi di Pechino. Dalla Paralimpiadi di Londra 2012 riporta a casa due bronzi e un argento a squadre

Dopo essere diventato ingegnere in una società che lavorava sull’autostrada, tornando dal lavoro, uscendo dall’ufficio, ho fatto un incidente e a quel punto la mia vita è cambiata: adesso vedremo se in meglio o in peggio, secondo me in meglio. Fino a quel momento era una vita assolutamente soddisfacente, però di un ragazzo normale e anche molto condizionato – come tutti – da molte scelte fatte come mediazione tra quello che vogliono i tuoi genitori, vuole la società, e quello che vuoi veramente tu. Io invece quel 19 marzo mi sono ripromesso che era come rinascere per me e mi sono ripromesso, da quel punto in avanti, di decidere io esattamente come volevo la mia seconda vita. […]. E devo dire che in parte ci sto riuscendo. Poi questo non vuol dire non fare degli errori, però il bello di questa seconda vita, e per questo dico che mi piace di più, è che veramente è la mia vita, al 100%, nel senso che l’ho ritrasformata a mia immagine e somiglianza, gli ho dato l’impronta, cosa che invece quella di prima era una bella vita, ma come tante, diciamo. Questa è la vita di Vittorio Podestà.

Il bello di questa seconda vita è che veramente è la mia vita, al cento per cento, nel senso che l’ho ritrasformata a mia immagine e somiglianza, gli ho dato l’impronta. Quella di prima era una bella vita, ma come tante, questa è la vita di Vittorio Podestà

Un nuovo inizio. La mia prima vita era la vita di un ragazzo che cresce come tanti, che si diverte, che va bene a scuola, senza essere il secchione della classe, che si diploma come geometra, […] e poi anche lì – diciamo – ho scelto di andare all’università, ingegneria, però lì non ho fatto la scelta che avrei voluto, io avevo la passione per la meccanica invece […] ho fatto Ingegneria civile un po’ mediando, perché mio padre faceva il costruttore e anche lì sono stato condizionato in quello. Nel 2000 mi sono laureato e il 19 marzo del 2002 ho fatto l’incidente. […] Diciamo che nella sfortuna sono stato fortunato, perché la mia testa è rimasta intatta, ero quello di prima, non mi sono imbruttito nel pensare che ero l’unica persona sfortunata al mondo, ho pensato che invece c’era passato qualcuno prima di me tante volte, chissà quanti eravamo, senza saperlo. Perciò […] invece di abbattermi e pensare che quella era la fine di tutto, ho pensato che invece era un nuovo inizio.

La spinta a tornare nel mondo normale. Avevo fatto tanti esami all’università, mi ero laureato, però quella era la prova del nove. Quelli di prima erano tutti test, questo era lo stress test principale. Poi ho avuto la fortuna di conoscere un amico che da subito mi ha detto dopo l’incidente: «Vittorio, sbrigati a uscire dall’unità spinale, perché il mondo è fuori anche per quelli come noi. Non chiuderti in un ospedale dove ti senti comunque magari il meno sfortunato tra gli sfortunati, ti senti protetto, ti senti comunque in un mondo a parte, no. Tu devi far parte del mondo normale». […] E quindi ho creduto a quelle parole, ho creduto che poteva essere comunque una vita soddisfacente e interessante, ma non immaginavo che lo potesse essere cosi tanto.

La passione per la bici. Nella mia famiglia scuola e sport più o meno avevano la stessa importanza, sicuramente un po’ più la scuola, ma subito dopo veniva lo sport. L’unica difficoltà psicologica che avevo dopo l’incidente era questa: io ero appassionato di bicicletta, andavo in bici, nella mia famiglia il ciclismo era lo sport della famiglia, diciamo. Al papà piaceva il ciclismo quindi doveva piacere a tutti. E io che ero ribelle, finché ero piccolo, non mi arrendevo a questa cosa qua. Allora io mi appassionavo al calcio, ad altri sport, e mio padre invece con mio fratello riusciva ad essere molto più incisivo, mio fratello è diventato poi subito un ciclista di un certo livello. Io invece ho incominciato ad appassionarmi al ciclismo dopo che mio padre ha mollato la presa, cioè dopo che mio padre ha detto: «Vabbè, con lui non riesco a condizionarlo troppo». E da lì però è diventata una passione incredibile, era più che altro una passione non solo del ciclismo ma in particolare della meccanica della bici, mi piaceva la bicicletta come mezzo.

Invece di abbattermi e pensare che quella era la fine di tutto, ho pensato che invece era un nuovo inizio

Il momento più difficile. Ecco il momento più difficile è stato quello del dottore quando mi ha detto che non avrei potuto più camminare, quello l’avevo capito e gli ho detto: «Dottore, mi dica qualcosa di più, no? Ho capito che non potrò più camminare», chissà perché avevo questa sensazione. Quella stessa notte che ho fatto l’incidente c’era questo dottore che era l’ultimo giorno che faceva in quell’ospedale a Parma, dove io ho fatto l’incidente lì vicino, e che ha dovuto darmi questa notizia e lui mi ha detto: «Guarda, sono parole che sicuramente capirai più avanti, però il tuo incidente non è così brutto come ti sembra perché le tue mani sono quelle di prima, quindi tu non puoi camminare, ma se lo vorrai potrai fare tantissime cose». Non mi ha illuso, quella è un’altra cosa che ho considerato positiva, nessuno mi ha dato delle illusioni, mi ha detto come stavano le cose e mi ha detto però anche che cosa avrei potuto fare, mi ha dato il potenziale. Non mi ha detto: «Sì, ma poi ci sono nuove cure, potrai tornare a camminare, chissà, magari…». No, mi ha detto le cose com’erano: «Tu non camminerai più, però...» E quel però è quello che mi ha dato la curiosità di capire.

La folgorazione dell’handbike. Quella notte, l’unica notte in cui mi sono un po’ disperato, la preoccupazione principale non era di non poter più camminare, ma era di non poter andare in bicicletta. Perché io consideravo la bici non solo il mio sport preferito, ma la valvola di sfogo che ogni persona deve avere. Si arriva nervosi dal lavoro, da casa, si è litigato con la fidanzata, con i genitori. Io sapevo che prendevo la bicicletta, facevo due ore di allenamento, tornavo che ero meglio di prima. […] Però diciamo che la svolta, la folgorazione l’ho avuta quando ho visto questo mezzo qua, che non aveva assolutamente la forma che vedete adesso […]. Era sicuramente un mezzo che a me piaceva tantissimo, lo vedevo già molto “corsaiolo”. […] Quindi da lì è nato tutto perché poi, da quel giorno, finivo l’allenamento e pensavo già al giorno dopo che cosa avrei fatto. È stata un’escalation, non sentivo la fatica, cioè non vedevo l’ora di uscire in bicicletta, migliorare. E poi ho cominciato a voler fare le prime gare e da lì è iniziato tutto quanto.

L’incontro con Zanardi. Io Alex l’avevo incontrato per la prima volta nel 2005 mentre andavo in Spagna ad allenarmi: in autogrill, all’ultimo autogrill prima del confine con la Francia, a Ventimiglia. Io e mia moglie ci fermiamo per fare qualcosa in autogrill e trovo il parcheggio dei disabili occupato. Vedo un macchinone, un Bmv grosso, e dico: «Questo qua è il classico riccone che pensa di poter mettere la sua macchina nel posto dei disabili». Allora ho detto: «Io mi ci metto dietro in modo che non possa uscire, così almeno mi deve aspettare, così la prossima volta si ricorda che se ha fretta di andarsene deve aspettare quello a cui ha occupato il posto». Invece scende dalla macchina e mia moglie fa: «No no, guarda che è disabile». E io: «Ma non vedi che è Alex Zanardi?» […] Però io non l’avrei fermato, perché di solito non sono uno a cui piace la firma, le domande col campione, e invece lui ha visto sul tetto della mia macchina l’handbike […] e si è avvicinato a chiedermi informazioni: «Cosa fai? [Cos’è] questo sport?». M’ha detto: «Guarda, la Bmw prepara questi sci per i disabili, provali e magari tu mi insegni un po’ di questo mezzo». Ci siamo lasciati con la promessa di risentirci. E non ci siamo risentiti – mi sembra – per un anno interno, forse un anno e mezzo o due anni.

La telefonata di Alex. Venti giorni dopo il mio mondiale, mi chiama Alex e mi dice: «Sai Vittorio, ti ricordi di me?». «Sì fischi! Mi ricordo di te, sì». «Guarda, ti devo chiedere un favore. Io ho deciso di andare a fare la maratona di New York, perché il mio sponsor che sponsorizza la maratona mi ha chiesto, e allora ho deciso di fare la maratona di New York». E io ho detto: «Bello, bello, dai dai, anzi c’abbiamo quasi più di un anno per prepararla». E lui fa: «No, no, no, ma non hai capito, quella del prossimo mese». Io ho detto: «Come del prossimo mese? Ma te sei matto! Ma hai già iniziato?». «No, io non c’ho neanche la bicicletta, trovami una bicicletta». Allora io gli ho trovato una bicicletta da un amico mio svizzero, che la stava vendendo, mentre lui in quel momento stava facendo ancora il pilota, mi ricordo che gliela avevano consegnata a Monza, io non ero riuscito neanche ad andare su. […] Stavamo penso due ore al giorno al telefono, tant’è che – mi ricordo – abbiamo fatto un abbonamento telefonico tipo You&Me, no? Come fanno i fidanzati. E mi ricordo che le nostre mogli ci prendevano in giro. Io dicevo: «Senti Alex, qua stiamo due ore al telefono, tu magari i soldi ce l’hai, ma io ci sinceramente… ci costiamo un pochettino, no?». «Ma no, non ti preoccupare…». Vabbè, tant’è che abbiamo fatto questo You&Me, così almeno avevamo la tariffa. […] E niente, stavano delle ore perché io gli spiegavo tutti i segreti.


Avevo fatto tanti esami all'università, mi ero laureato, però quella era la prova del nove. Quelli di prima erano tutti test, questo era lo stress test principale.

La forza del gruppo. A tutti e due è servita questa conoscenza, anche dal punto di vista sportivo e tecnico, perché ci siamo stimolati a vicenda, un’idea che viene a uno, l’altro la elabora, poi ci aggiunge qualcosa. Quindi il fatto che poi noi due, poi tutta questa Nazionale è diventata forte, è anche dovuto a tutta questa unione di cose. Io sono stato il primo a portare l’handbike in Italia a un certo livello, anzi sicuramente, però ho voluto da subito cercare di creare un gruppo perché io ho l’idea che quello che tu sai, se lo tieni segreto per te, muore con te, invece se tu lo diffondi e fai in modo che anche altre persone ne possono approfittare, tu il giorno che finirai comunque ci sarà qualcosa che puoi dire: «L’ho costruita anche io». E devo dire che questa Nazionale sta dando soddisfazione a tutti, ma soprattutto a me perché l’ho vista crescere. […] In questo momento non dobbiamo aver vergogna a dire: siamo la Nazione più forte del mondo in handbike, senza dubbio, e per uno che stato il primo a iniziare è una grande soddisfazione.

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Podestà
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Vittorio Podestà

Il medagliere

  • 2008 Paralimpiadi di Pechino Ciclismo su strada - Cronometro individuale HC B
  • 2012 Paralimpiadi di Londra Ciclismo su strada - Staffetta a squadre mista H1-4
  • 2012 Paralimpiadi di Londra Ciclismo su strada - Gara individuale maschile H2
  • 2012 Paralimpiadi di Londra Ciclismo su strada - Cronometro individuale maschile H2