basket disco

Carlo Di Giusto Roma, classe 1955

Incontra il basket in carrozzina a 27 anni. Nel 1998, vince il Campionato italiano con la squadra del Santa Lucia, di cui diventa allenatore a partire dal 2002. Da commissario tecnico della Nazionale di basket (2003-2007) vince il titolo europeo nel 2003 e nel 2005, arrivando sesto alle Paralimpiadi di Atene 2004. Torna ad allenare gli azzurri nel 2016. Per la sua storia personale rappresenta un anello di congiunzione tra lo sport per disabili delle origini e l’attuale movimento paralimpico

Incontra il basket in carrozzina a 27 anni. Nel 1998, vince il Campionato italiano con la squadra del Santa Lucia, di cui diventa allenatore a partire dal 2002. Da commissario tecnico della Nazionale di basket (2003-2007) vince il titolo europeo nel 2003 e nel 2005, arrivando sesto alle Paralimpiadi di Atene 2004. Torna ad allenare gli azzurri nel 2016. Per la sua storia personale rappresenta un anello di congiunzione tra lo sport per disabili delle origini e l’attuale movimento paralimpico

Sono nato a Roma nel 1955, l’8 giugno, e nove mesi dopo la nascita sono stato colpito da poliomielite, paralisi infantile, e quindi i miei genitori mi hanno portato al Bambin Gesù, dove appunto mi è stata diagnosticata questa patologia e ho iniziato il mio percorso di vita […]. Finché nel 1978 per la prima volta venne al bar che frequentavo alla Montagnola, in Via Fonte buono, un ragazzo che aveva subìto un incidente, Massimo Goretti, e mi chiese se volevo provare a giocare a basket in carrozzina. All’epoca io facevo l’università, ero abbastanza impegnato, poi era un periodo della mia vita un po’ particolare e quindi gli dissi che volevo pensarci e non accettai il suo invito. […] Poi due anni dopo tornò, nel 1980, alla fine dell’estate, e mi ripropose la cosa. E mi disse che si era spostato qui a Santa Lucia, che praticamente dista soli tre chilometri dalla zona dove sono nato e cresciuto. E mi decisi una sera a venire ad un allenamento in questa palestra, che però non era cosi, era completamente diversa. C’era un linoleum verde incredibile, che non dimenticherò mai, e vidi per la prima volta un allenamento di pallacanestro in carrozzina – avevo visto una partita precedentemente – e durante un’azione di gioco due ragazzi ebbero uno scontro abbastanza violento. All’epoca le carrozzine non erano come quelle attuali con gli strep e quant’altro, e caddero entrambi a terra. Cadendo a terra, le carrozzine continuarono la loro corsa e si allontanavano, e loro con il “passo del giaguaro” cercavano di recuperarle. Uno dei due si girò verso l’altro e gli disse: «Un altro fallo di questo tipo e ti spezzo le gambe». Questa cosa mi colpì in maniera molto forte, mi girai verso Massimo e gli dissi: «Domani sera a che ora vi allenate?».

Quando ero ragazzo per motivi di carattere legati alla sicurezza venivo esonerato d’ufficio dal praticare educazione fisica, quindi mi lasciavano dentro la classe, quando tutti i miei compagni andavano dentro le palestre, a fare quel poco di attività che si faceva nelle scuole

Quella volta nella palestra della scuola. Il mio rapporto con lo sport è stato sempre molto conflittuale per due motivi principali. Quando ero ragazzo, anche ragazzino, per motivi di carattere legati alla sicurezza venivo esonerato d’ufficio dal praticare educazione fisica, quindi mi lasciavano dentro la classe, quando tutti i miei compagni andavano dentro le palestre, a fare quel poco di attività che si faceva nelle scuole. […] Il culmine l’ho raggiunto quando sono andato a fare il liceo scientifico: […] la palestra era al secondo piano ed, essendo un palazzo d’epoca, per raggiungerla bisognava fare quattro rampe di scale. […] Finché un giorno venne un professore di educazione fisica: aveva una leggera zoppia, penso legata a un infortunio, non me l’ha mai voluto raccontare – un infortunio, perché era un ex pallavolista – e mi disse: «Perché non vieni in palestra con noi? Magari impieghi un po’ di tempo, noi intanto ti anticipiamo e ti aspettiamo». E così feci le scale, raggiunsi tutti in palestra e mi dice: «Vuoi fare qualcosa?» A suo rischio e pericolo prese questa decisione e io gli dissi: «Beh, forse posso provare a fare la corda o la pertica», perché ovviamente, dovendo utilizzare gli arti superiori, non ero messo in una condizione di inferiorità o di differenza nei confronti del resto della classe. Dice: «Vabbè, facciamo una garetta» e ovviamente cosa accadde? Come presi la corda in mano, tu-tu-tu-tu, ero arrivato al soffitto e il mio compagno di classe ancora doveva partire. Quindi rimasero tutti un pochino così e iniziarono a chiamarmi Tarzan da quel giorno. Però per me fu una dimostrazione che comunque, se ero messo nelle condizioni di poter dare, di poter esprimere qualcosa, ci sarei riuscito.

Un atleta infaticabile. Ero un atleta che non si è mai risparmiato. Venivo in palestra alle due, […] finivo alle due di lavorare e venivo in palestra, mi allenavo fino alle cinque da solo, tirando, […] lavorando molto sui fondamentali di base. Poi iniziavo ad allenarmi con la squadra alle 17 e finivamo verso le 20-20.30, quindi la giornata era completamente dedicata alla pallacanestro. Quindi, anche al di là della predisposizione, il lavoro continuo ha fatto sì che diventassi poi quello che sono stato come atleta.

Il dottor Maglio. Antonio Maglio sicuramente è stato un uomo fondamentale per me, perché nel poco tempo che ho avuto la possibilità di conoscerlo e lavorarci insieme, mi ha trasmesso quello che penso che sia una delle cose più essenziali e fondamentali: la passione. Lui faceva le cose per passione, lui riusciva a farti comprendere che se vivi una qualsiasi parte della tua vita senza passione, senza crederci veramente, diventa difficile: sia raggiungere gli obiettivi, raggiungere il risultato, ma soprattutto essere felici. E lui invece mi faceva capire che, quando entravo in campo, io dovevo sorridere, dovevo essere contento. Poi ogni tanto usciva fuori il Maglio quello severo, quello che per il ruolo doveva anche farti capire che dovevi sacrificarti, dovevi dare il massimo per raggiungere certe cose, però tutto quello che faceva lo faceva veramente perché ci credeva, tant’è che è stato quello che ha creduto per primo nella sport-terapia.

Stoke Mandeville è uno dei ricordi più belli che posso avere nella mia esperienza da atleta. Inizialmente erano degli hangar, dove dormivamo in 50-60 persone su tre file di letti e la sera era una festa continua, non si riusciva a dormire

Stoke Mandeville. Stoke Mandeville è uno dei ricordi più belli che posso avere nella mia esperienza da atleta, anche soprattutto perché Stoke Mandeville significava essere in Nazionale: non si andava a Stoke Mandeville con il club […]. Mi ricordo inizialmente erano degli hangar, dove dormivamo – 50-60 persone – su tre file di letti, due ai lati e una centrale e la sera era una festa continua, non si riusciva a dormire. Chi aveva le gare, magari si lamentava, dicendo: «Ah, io devo riposare, domani ho uno slalom, ho la gara di atletica». Era uno sfottò e un modo di vivere in maniera veramente completa. […].

Basket: un gioco di squadra. Scelsi il basket per un motivo unico principale e lo rifarei sempre: lo sport di squadra. […] Perché nel Dna ho sempre avuto la voglia di stare insieme alla gente, di confrontarmi non solo con l’avversario ma anche e soprattutto con le persone che mi stanno accanto. Il pensiero di poter costruire qualcosa insieme con altri e sapere che è più difficile raggiungere degli obiettivi nello sport di squadra – questo è statisticamente provato, perché devi far funzionare tante cose insieme – è sempre una sfida continua. Penso che questa cosa forse mi ha aiutato molto poi nella seconda parte della mia vita, quando ho iniziato a fare l’allenatore, perché mi è rimasta sempre dentro la ricerca del perché non si raggiunge un obiettivo o un risultato. […] Nel 2002 presi in mano la Nazionale a giugno, l’anno successivo a giugno vincemmo il primo campionato europeo ed era in assoluto la prima medaglia vinta dalla Nazionale italiana di basket in carrozzina.

Avevo tantissimi amici che poi purtroppo col passare del tempo si sono persi con la droga o con altre situazioni e certamente il basket mi ha aiutato a non cadere  in determinati percorsi, che sono senza ritorno purtroppo

La forza dello sport. Nella mia vita il basket è stato non fondamentale, di più. Me l’ha trasformata. Me l’ha trasformata perché vivevo in un’epoca abbastanza difficile, sia politicamente ma anche nasco in una borgata, quindi avevo tantissimi amici che poi purtroppo col passare del tempo si sono persi con la droga o con altre situazioni, e certamente il basket mi ha aiutato a non cadere […] in determinati percorsi che sono senza ritorno, purtroppo.

La forza propulsiva dello sport. Io penso che lo sport paralimpico abbia tantissime sfaccettature e tutte positive. Innanzitutto dal punto di vista sanitario, io l’ho vissuto non solo sulla mia pelle, ma su tutte le persone che ho avuto la possibilità di avviare e di portare a iniziare il basket o altre discipline, ho visto dei miglioramenti incredibili. Ho parlato con dei genitori e la prima cosa che mi hanno detto è che magari c’è lo stimolo di fare determinate cose, le più semplici, perché sanno che devono andare magari ad allenarsi o perché sanno che in quel momento devono mettersi la scarpa da pallacanestro e magari quel movimento che, invece facendo anni di terapia non l’hanno mai fatto, riescono a farlo. Poi consideriamo la parte sociale. Culturalmente ci ha portato dentro tante case; io non scorderò mai purtroppo, preferisco non fare il nome, c’era un conduttore televisivo della Domenica sportiva che disse testualmente: «Finché ci sono io a condurre la Domenica sportiva non entrerà mai un disabile nello studio della Domenica sportiva». […]. E poi non dobbiamo dimenticare tutti i miglioramenti che hanno significato nei ristoranti, negli alberghi, nell’utilizzo degli aerei, dei treni, nella produzione e nello sviluppo degli ausili che vengono utilizzati. Cioè, grazie allo sport alcune grosse fabbriche hanno fatto anche un percorso di sperimentazione, che oggi ha permesso la creazione di carrozzine che pesano magari sei chili, in titanio, in carbonio, con delle ruote leggerissime, abbiamo visto le protesi che vengono utilizzate non solo da Pistorius ma da tutti quegli atleti, vediamo la Caironi, La Barbera, o le biciclette che sono state fatte, l’handbike per Zanardi o quant’altro. L’utilizzo di determinati materiali e di determinate ricerche che poi vengono portate nella pratica, nella vita di tutti i giorni, nell’utilizzo quotidiano di quello che per te diventa un mezzo indispensabile per poter fare determinate cose.

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