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Uber Sala e Irene Monaco Modena, classe 1946 - Roma, classe 1940

Lui infortunato sul lavoro, lei invalida civile, sono entrambi atleti plurimedagliati. Specializzato nel tiro con l’arco, Uber è stato ct della Nazionale paralimpica dal 1985 al 1992, mentre sua moglie ha partecipato a quattro edizioni delle Paralimpiadi (’64, ’68, ’80 e ’84), riportando tre ori, un argento e sei bronzi. Oggi vivono entrambi in una grande casa con giardino, alle porte di Ostia

Lui infortunato sul lavoro, lei invalida civile, sono entrambi atleti plurimedagliati. Specializzato nel tiro con l’arco, Uber è stato ct della Nazionale paralimpica dal 1985 al 1992, mentre sua moglie ha partecipato a quattro edizioni delle Paralimpiadi (’64, ’68, ’80 e ’84), riportando tre ori, un argento e sei bronzi. Oggi vivono entrambi in una grande casa con giardino, alle porte di Ostia

Uber: Ho cominciato a fare l’invalido del lavoro nel 1964. Sono venuto a Ostia nel ’65, un giorno che aveva fatto la neve, e ho conosciuto Roma sotto la neve con tutti gli alberi rotti. Il percorso per arrivare è stato una cosa incredibile, con una vecchia ambulanza dell’Inail e l’autista che non conosceva la strada: doveva venire verso il mare, ma ogni tanto si trovava a girare intorno al Colosseo. Però poi siamo arrivati a Ostia. Alla fine del 1966 ho conosciuto lo sport, ho cominciato a frequentare un po’ l’ambiente come sportivo; dopo siamo diventati atleti, ma a quei tempi eravamo sportivi. Al CPO dormivamo nel reparto degli sportivi, al quarto piano sotto le tettoie. L’ambiente mi è stato subito simpatico e ho pensato che era bene che andassi avanti nello sport. Io ho fatto sempre il tiro con l’arco e ho avuto la soddisfazione di promuovere il tiro con l’arco fra gli handicappati e portare gli handicappati in carrozzina a fare le gare insieme ai normodotati.

Alla fine del 1966 ho conosciuto lo sport, ho cominciato a frequentare un po’ l’ambiente come sportivo, dopo siamo diventati atleti, ma a quei tempi eravamo sportivi (Uber)

L’infortunio. Io avevo 18 anni quando ho avuto l’infortunio. Ho fatto tutto a Modena, praticamente. Lavoravo in una ditta dove facevamo macchinari per la pasticceria, forni elettrici per fare le pastarelle. Una domenica, lavorando in edilizia – aiutavo i muratori –, sono caduto da un “paranco”, queste gruette che si mettono sopra i balconi per tirare su i materiali. Sono caduto giù per terra, dal terzo piano son finito giù sulla strada e lì non mi sono più rialzato. I primi tempi nemmeno capivo esattamente che cosa era fare il paraplegico, purtroppo strada facendo ho avuto tempo per imparare. Un gran dolore, una botta, un colpo, un botto che ho sentito grosso e un gran dolore. […] Qualche giorno dopo, all’ospedale mi viene a trovare un amico d’infanzia: aveva un giornale piegato sotto l’ascella. Mi guarda e dice: «Pensa che il giornale dice che sei in fin di vita, ma guarda tu!». È stata una sorpresa, insomma.

La scelta di Ostia. All’ospedale all’inizio mi avevano lasciato sul letto, aspettavano che morissi, una cosa molto triste. Lì c’era una suora, la caposala, e praticamente c’ho litigato, perché io sono bello calmo, tranquillo adesso, ma non è stato sempre così: ci ho litigato di brutto e allora mi ha cacciato via lei. Due giorni dopo è arrivato un medico dell’Inail della sede di Modena, è venuto a guardarmi e aveva l’elenco degli ospedali più adatti per me, potevo scegliere. Ho scelto Ostia a caso, soltanto perché avevo una zia che abitava a Roma, perché praticamente la zia così sarebbe venuta a trovarmi più facilmente. Io del Centro paraplegici non avevo sentito mai parlare, ho scelto solo perché mia zia abitava qui vicino.

Ricominciare a vivere. Il periodo dopo ho cominciato a diventare un po’ più allegro, dopo però. Perché ho fatto una lunga degenza, sono rimasto a letto per quasi un anno, perché a Modena mi avevano lasciato fare i decubiti e prima di rimettermi in carreggiata ho passato quasi un anno di letto. Poi, appena ho cominciato a muovermi, a scendere giù in carrozzina e andarmene a fare un giro sul lungomare di Ostia, allora è ricominciata la vita. Prima non è che la vedevo tanto tranquilla la cosa, dopo cominci a osservare la gente, vai fuori al bar. […] All’inizio mi dicevano: «A Ostia, vedrai, ti rimettono in piedi e cammini», era una parola magica “cammini”. Quando poi ho capito, anche questo me lo spiegavano: «Sai, tu, bene che vada, non cammini più». E lì pianti, tutte le volte che mi giravano con la faccia al muro, lì erano lacrime.

L’arrivo al CPO. La prima impressione non è stata tanto bella: avessi visto uno in piedi! Tutti in carrozzina e uno addirittura in barella. L’impressione è stata bruttissima. Quando mi hanno portato in reparto, stavo a guardare: «Ma io qui non ci rimango, voglio tornare a casa». E c’era ancora l’autista, quello dell’Inail di Modena, che stava ancora lì e stava ad aspettare che io decidessi: se volevo rimanere o se mi doveva riportare a Modena. Perché la prima impressione è stata molto brutta: ho visto solo carrozzelle. Mi dicevano tutti: «Vai lì, ti rimettono a posto, ricammini». Ricammini? Ma non lo so come, nessuno in piedi. La prima cosa fu: «Io non ci rimango, riportatemi a Modena». La prima impressione è stata brutta. […]

Il compagno di stanza. […] La stanza era a tre letti, il mio primo vicino di stanza era Zarilli, un vecchio paralitico e io ero il “frescone”. Il paragone era che lui era una pecora e io ero un abbacchio. Io vedevo questo “invalidaccio”, questo se ne andava in giro in carrozzina con il fiasco del Chianti, aveva il “putto” sopra, un tipo di Chianti. Lui teneva sulla pedana, legato con l’elastico, il fiasco di vino. Aveva una pancia così, che gli appoggiava sulle ginocchia, e andava sempre in giro con questo fiasco, poi ogni tanto faceva il “trombettiere”. Poi anche quello incominciò a dirmi che ero giovane, che avrei dovuto fare dello sport. Diceva: «Fai come me». Io me lo guardavo: beveva, aveva una pancia così… «Che cacchio di sport fai tu?». Lui era un campione di ping-pong, diceva: «Io gioco er pinghe-ponghe». «Se sei sportivo tu, figurati…».

Il tiro con l’arco. Io ho una frattura dorsale e dovevo gareggiare con le categorie: la mia categoria era piena di poliomielitici, però il “polio” fino al busto… le gambe hanno poca roba, ma l’equilibrio, la mobilità che hanno con la polio, fortunatamente per loro, io ero un mezzo cadavere rispetto a loro. Io mi ricordo che una volta dovevo fare due vasche: io finisco la prima vasca, mi rigiro e questi “polio” stavano già andando a toccare la fine della vasca. Ho detto: «A me 'sto sport non me lo fate fa'» e non me l’hanno fatto fare più. Col tiro con l’arco invece mi trovavo bene, stavo lì fermo in carrozzina, non ci sono tanti scatti, era uno sport che mi piaceva.

L’incontro con Maglio. Il mio primo incontro con Maglio fu durante la visita. Maglio faceva le visite settimanali su per i reparti. Premetto che sono un po’ di ambientazione molto di sinistra e sul mio tavolino avevo appoggiato il mio corredo: era il Libretto rosso di Mao Tze Tung e il cappelletto di Che Guevara, quello con la stella rossa. L’avevo messo lì in bella vista. Quando Maglio ha visto 'sta roba, ha detto: «Buttatela via, toglietela». Io mi sono opposto, fermamente: «Quella è roba mia, non si tocca niente». Lui l’ha un po’ digerita male, poi ho capito: lui era un democristiano di destra, molto democristiano e molto di destra. A me della destra proprio niente… Il primo incontro è stato un po’ così, poi ho visto che era un uomo di sensibilità grande. Anzi, gli invalidi più vecchi di me lo chiamavano papà; io non l’ho mai chiamato papà ma l’ho sempre rispettato come una persona competente e anche con un’umanità notevole.

Il primo incontro con Maglio è stato un po’ così, poi ho visto che era un uomo di sensibilità grande. Gli invalidi più vecchi lo chiamavano papà, io non l’ho mai chiamato papà ma l’ho sempre rispettato come una persona competente e anche con un’umanità notevole (Uber)

L’incontro con Irene. Lei aveva fatto un concorso all’interno dell’azienda dove lavorava ed era passata dal centralino agli uffici. Allora hanno pensato di fare una festa e invitare tutti gli amici, hanno preparato un vassoio di pastarelle… Ma sai, a Roma quando chiami a mangiare qualcuno, ne trovi sempre tanti! Praticamente lei e la sorella hanno tagliato a metà le pastarelle per farle bastare per tutti quanti, l’hanno segate e io stavo a guardare 'sta storia della festa e queste che tagliavano le pastarelle. A me non era risultato tanto per la quale, mi feci subito un’opinione, sicuramente sbagliata, l’ho viste subito che erano delle “spilorcette”.

Irene: Il discorso era per un po’ di persone, ma si sono aggregati tanti tanti, anche il doppio. Allora per farli mangiare un po’ per uno l’idea è stata: dividiamoli. Quando andavamo al nuoto c’era anche lui lì, quando andavamo alla Garbatella c’era una piscina fisioterapica […] e lì si facevamo i grandi allenamenti per poi fare le gare sportive di nuoto. Mi accorgevo che lui era sempre uno che si metteva a questionare […] e in un certo qual modo mi dava un po’ fastidio il fatto che stesse sempre così, con un po’ di ironia. Dopo, diciamo, facendo lo sport, lui faceva il tiro, per cercare un po’ di attirare l’attenzione in modo positivo e quindi a un certo momento ci siamo un po’ innamorati.

Uber: Per me non è stato un colpo di fulmine, assolutamente. Un po’ alla volta. Un po’ alla volta ho avuto modo di apprezzarla in un modo e nell’altro.

Irene: Siamo rimasti fidanzati un paio d’anni, perché lui tornava a casa e ci scrivevamo le lettere, abbiamo avuto una bella corrispondenza. Io personalmente in famiglia ho avuto il mio papà che aveva me e la mia gemella con la poliomielite e quindi un altro invalido assolutamente non l’avrebbe accettato e contrastava sempre la questione. È sempre stato così, di quel parere. Mia mamma no, mia mamma era più dolce.

L’infanzia di Irene. Abitavamo al quinto piano con 120 gradini, in affitto, senza ascensore né acqua calda. La nostra famiglia era composta da una sorella più grande di tre anni, la prima nata, poi il parto gemellare, io e Elena, e dopo mamma ha avuto un’altra gravidanza gemellare a distanza di anni, però li ha persi. Andando ancora avanti ha avuti altri due maschietti gemelli, uno dei due però è morto presto, a un mese e mezzo. E quindi in famiglia eravamo tre femmine e un maschio, Corrado. Comunque Corrado è nato più avanti, nel ’53. Vivendo lì abbiamo avuto la poliomielite, che rende inefficaci i muscoli. A me si è manifestata per prima, a una gamba, a cinque anni e mezzo. La mia gemella dopo tre giorni, tutte e due le gambe. Mi ricordo gli aerei che passavano, c’era il rifugio giù. C’è stato il periodo della fame e quindi siamo cresciute così. Mamma e papà lavoravano, mamma veniva ad allattarci. La sorella più grande piangeva, diceva: «Non mi vuoi più bene».

Siamo rimasti fidanzati un paio d’anni, perché lui tornava a casa e ci scrivevamo le lettere, abbiamo avuto una bella corrispondenza (Irene)

La passione di Irene per lo sport. Lo sport mi è sempre piaciuto, quindi all’inizio della mia vita, quando ero ragazza, seguivo tanto le gare sportive di atletica, di scherma. Cioè mi appassionava. Quindi a un certo momento, quando abbiamo saputo che al Centro Paraplegici c’era la possibilità di andare e fare lo sport, io con la mia gemella immediatamente siamo andate. Facevamo anche la scherma e abbiamo fatto anche la medaglia d’oro nella scherma.

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