Sei Paralimpiadi e 14 medaglie, è uno degli atleti italiani più rappresentativi. Disabile in seguito a un tuffo sbagliato all’età di 17 anni, ha praticato prima il nuoto e poi l’atletica leggera, cimentandosi su distanze diverse, dai 100 metri a 42 chilometri e 195 metri della maratona, specialità che gli ha dato le più grandi soddisfazioni nella sua lunga carriera sportiva
La mia storia comincia in un centro di riabilitazione: ho conosciuto per caso un ragazzo che faceva tennistavolo, era un nazionale di tennistavolo. Faceva il figo, girava sempre con le magliette [con] scritto Italia. Mi ha detto: «Sei giovane, perché non fai attività sportiva?». Io conoscevo poco del mondo sportivo, parlo dei primi anni Ottanta, e quando sono tornato a casa da questo centro di riabilitazione, mi sono informato […] e dopo un mese ero in piscina. […] E così ho iniziato i primi allenamenti e, l’anno dopo, le prime gare qui, locali, a Montebelluna se non ricordo male. E dopo qualche mese ho scoperto l’atletica leggera, perché, dove mi allenavo, a Cittadella, la piscina era adiacente al campo di atletica e io vedevo questi ragazzi arrivare con queste carrozzine un po’ strane sul tetto della macchina e mi sono incuriosito.
Non è che tu esci di casa e dici: ok, adesso vado alle Paralimpiadi. Te lo conquisti, giorno dopo giorno, se ne hai le forze, se ne hai le capacità.
La scoperta dell’atletica. Ho chiesto a loro: «Ma com’è fare questa attività?». […] Uno mi ha detto: «Facciamo tre chilometri di riscaldamento, poi iniziamo l’allenamento». […] Tre chilometri per me era scalare veramente l’Everest. Dopo poco ho iniziato; mi hanno prestato una carrozzina usata, vecchia, non adatta alle mie caratteristiche, e ho scoperto che mi piaceva molto, perché nella piscina c’è un ambiente chiuso, dove non parli, dove hai come compagno quella benedetta linea nera, che ti fa compagnia per tanto tempo. [Qui invece] eri all’aria aperta, eri con il cielo azzurro, eri con i compagni, ridevi, scherzavi. Facevi anche molta fatica, non lo nego, però era un ambiente diverso, socializzavi, stavi in compagnia.
Le prime gare. Così ho iniziato anche con l’atletica: era nella primavera ’87. Ho iniziato le prime garette, sempre qui a livello regionale, e da lì in poi i primi campionati italiani. […] Gli allenatori della Nazionale mi hanno visto, mi hanno notato, ero molto giovane, avevo 21 anni, se non ricordo male, […] e dopo poco mi hanno convocato a dei raduni della Nazionale, come giovane promessa, si dice cosi adesso, e dopo poco mi hanno convocato ai primi Mondiali di Stoke Mandeville, che all’epoca erano un evento fisso per tutte le Nazionali.
L’incidente. Io ho fatto un banale tuffo, un giorno d’estate, andando a divertirmi con i miei amici. Una giornata come tantissime altre, quando si è ragazzi chi non è andato al mare o al fiume o al lago a divertirsi e fare il bagno nel periodo estivo? Un tuffo sbagliato: ho trovato un fondale basso, non lo sapevo, non conoscevo il posto. L’impatto ovviamente è stato molto violento, inaspettato, e questo mi ha causato la frattura delle vertebre del collo con paralisi immediata. Da lì tutta la trafila: ambulanza, pronto soccorso, elicottero. […] L’operazione, la fase acuta, eccetera eccetera. […] La mia lesione è molto alta, perciò molto grave, e all’epoca mi prospettavano una vita immobile: «Tu starai in salotto, guarderai la televisione, userai la carrozzina elettrica». Non mi davano prospettive rosee. E forse un po’ l’incoscienza dell’età, un po’ la voglia di vivere, un po’ il desiderio, comunque, di avere una vita per il suo nome, cioè allegra, vissuta, dignitosa…
E da lì mi sono innamorato di questa distanza, perché poi correre la maratona è una vita: cioè dentro a due ore e mezza, tre ore di gara, senti tutto, pensi tutto, ti aspetti di tutto, calcoli tutto
42 chilometri e 195 metri: una sfida folle. Ho iniziato con velocità, perché ovviamente il mio fisico non era allenato, non era addestrato per affrontare distanze molto lunghe […]. Ho una lesione severa, ho pochi muscoli che funzionano, perciò affrontare distanze lunghe è impegnativo dal punto di vista muscolare. Un po’ alla volta, un po’ alla volta ho aumentato le mie capacità, la mia resistenza e anche la mia autostima, perché all’inizio pensavo fossero un po’ toccati al cervello quelli che facevano la maratona, soprattutto quelli della mia categoria. […] E poi un giorno ho visto la maratona di Roma e un mio compagno e amico, avversario, che la faceva. E lì mi è scattato qualcosa: «Se la fa Paolo, la faccio anch’io». E l’anno dopo ho iniziato ad allenarmi e ho affrontato la prima volta i 42 chilometri e 195 metri, questa è la distanza esatta della maratona. E per me era scalare veramente l’Everest, cioè una montagna. Ho avuto la fortuna che la maratona era su 13 giri, perciò ho detto: «Vabbè, se al limite se non ce la faccio, mi fermo». E invece ho resistito fino alla fine ed è stata una gioia immensa, cioè aver vinto questa sfida che per me era folle. E da lì mi sono innamorato di questa distanza, perché poi correre la maratona è una vita: cioè dentro a due ore e mezza, tre ore di gara, senti tutto, pensi tutto, ti aspetti di tutto, calcoli tutto.
Atene 2004. Atene: chi conosce la storia dello sport, vuol dire la battaglia, Filippide, questa leggenda di questo soldato che muore per avvisare la città di Atene che è stata vinta la battaglia, poi questa mitologia che nasce lo sport in Grecia […]. Cioè, c’è tutta una serie di aspetti che ha reso quella gara unica, indelebile, un apice. Poi arrivare in quello stadio, con i muscoli sfiniti, un percorso molto duro, difficile, impegnativo, col caldo. E arrivare lì in quello stadio, con questa pista nera, questa luce data dal sole che si rifletteva nel marmo bianco di questo stadio, è stata veramente una cosa che uno se poi ci ripensa, dice: «È impossibile che sia io ad averla vissuta».
Londra 2012. Poi i 100 metri di Londra che hanno tutta un’altra storia, un po’ particolare, insomma. Avevo una grande sete di rivincita, una voglia di riscatto per aver perso Pechino. Una distanza che io non amavo, non correvo mai, trovavo poco sensata, cioè ci impieghi più a partire che a arrivare. Non è bella, secondo me, come gare più lunghe dove devi metterci – oltre che la forza – la strategia. Però quella era la gara e quella ho dovuto accettare come sfida. Ho dovuto cambiare non solo il mio tipo di allenamento, il mio tipo di preparazione, di forza e tutto quanto, ma anche l’aspetto caratteriale. […] Nei 100 metri devi essere una bestia feroce, cioè quando sparano hai 20 secondi, 21 per la mia categoria, in cui devi dare tutto quello che hai fatto in quegli anni che ti sei preparato per arrivare lì. Non hai modo di pensare, non hai modo di sbagliare, non hai modo di fare strategie. […] E non è stato semplice perciò quando sono arrivato, e ho visto che ero arrivato secondo, ho detto: «Cavolo, ho vinto la mia sfida personale». Non era tanto una sfida contro i miei avversari, ma era una sfida di dire: «Nessuno ci credeva, io ho fatto vedere che potevo fare, per me stesso prima, qualcosa di buono».
Sidney 2000. Sidney è stata l’edizione dove forse ho ottenuto il massimo, anche come numero di medaglie; era una fase ottima della mia carriera per l’età, per la forma, per l’aspetto anche di sicurezza delle mie capacità. Poi lì avevo degli avversari molto forti, uno in particolare, […] che era di Sidney, perciò quando si gareggiava aveva 40-50-60mila persone che tifavano per lui. E c’era ’sta bolgia incredibile, mi ricordo, sia gli 800 metri che i 1.500 metri, che poi è la gara dove l’ho superato al fotofinish […]. Lui era fortissimo, aveva il record del mondo, molti secondi meglio di me, però ha fatto una strategia scellerata, è partito in testa, sempre tirato, una furia, […] e l’ho ripreso a 120 metri dall’arrivo: lui si è allargato verso destra, a fine curva. Io ho aspettato quel secondo in più, perché di solito ovviamente la dinamica delle gare è che tu lo sorpassi a destra. Lui si è allargato, ho aspettato due o tre secondi, perché vedevo che continuava ad allargarsi, e l’ho passato all’interno e, passandolo all’interno, ho risparmiato un metro, un metro e mezzo di percorso, e l’ho battuto per quattro centesimi. […] Ed è stata una gara che anche quella ricordo con molto piacere, perché insomma lì c’era tutto: la forza, la resistenza, la furbizia, la strategia, la determinazione, perché mi aveva staccato, ho detto: «No, tengo duro». Lì potevo accontentarmi del secondo posto che ormai era sicuro, invece ho tenuto duro e l’ho ripreso a 110-120 metri, proprio quasi alla fine della curva. Ho respirato un secondo, due. Poi è andata bene.
Ho fatto vedere che si può vivere, nonostante una lesione molto alta come la mia, in maniera bella, dignitosa, vivace, piena, e questo credo sia il risultato più importante che ho ottenuto
Trent’anni di bella vita. Con la mia lesione, se non avessi fatto sport, sarei molto meno indipendente […]. Ho fatto vedere che si può vivere, nonostante una lesione molto alta come la mia, in maniera bella, dignitosa, vivace, piena e questo credo sia il risultato più importante che ho ottenuto. Le medaglie, sì, sono tante, sono lì in un cassetto, sono bei ricordi, però quello che ricordo è che ho fatto quasi 30 anni di bella vita. Lo sport è bella vita, cioè te lo dirà qualunque sportivo: finché puoi, tieni duro, ti diverti. […] Ho un po’ di usura, la mia macchina è un bell’usato con tanti chilometri, però mi diverto ancora ad andare ad allenarmi, andare alle gare, a viaggiare, affrontare queste emozioni che ti danno le gare, prima, dopo, nonostante i risultati, no? Poi c’è la delusione quando perdi o la soddisfazione quando ottieni qualcosa di bello, d’importante, che ritieni importante. Non è solo la medaglia: a volte è un bel tempo, è una bella sensazione, che dici: «Oggi ho corso bene, ho fatto bene». E queste sono cose che lo sport ti regala e te le conquisti un po’ alla volta, giorno dopo giorno, con l’allenamento, con il sacrificio e sono un po’ discorsi retorici, però è vero. Non è che tu esci di casa e dici: «Ok, adesso vado alle Paralimpiadi». Te lo conquisti, giorno dopo giorno, se ne hai le forze, se ne hai le capacità. Io sono riuscito un po’ di volte, speriamo – lo dico piano – di continuare ancora un po'.
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