scherma

Beatrice Vio Mogliano Veneto, classe 1997

Comincia a praticare la scherma nel 2002, all’età di soli cinque anni. Nel 2008 è colpita da meningite fulminante e le vengono amputati tutti e quattro gli arti; due anni dopo scopre la scherma in carrozzina. Da lì un successo dopo l’altro: campionessa mondiale under 17 nel 2011, prime partecipazioni alle coppe del mondo nel 2012, primi ori in coppa del mondo nel 2013, campionessa europea nel 2014 e campionessa mondiale nel 2015. Nel 2012 è stata tra i tedofori ai Giochi paralimpici di Londra

Comincia a praticare la scherma nel 2002, all’età di soli cinque anni. Nel 2008 è colpita da meningite fulminante e le vengono amputati tutti e quattro gli arti; due anni dopo scopre la scherma in carrozzina. Da lì un successo dopo l’altro: campionessa mondiale under 17 nel 2011, prime partecipazioni alle coppe del mondo nel 2012, primi ori in coppa del mondo nel 2013, campionessa europea nel 2014 e campionessa mondiale nel 2015. Nel 2012 è stata tra i tedofori ai Giochi paralimpici di Londra

Ho 19 anni, sono una studentessa, però faccio anche scherma e quindi sono un’atleta. Faccio tantissime cose in realtà, perché non ho la solita vita normale, sono sempre in giro, e perché ho un’associazione onlus, abbiamo creato un’associazione onlus con i miei genitori che si chiama Art4Sport, e quindi mi prende tantissimo tempo l’associazione e poi ovviamente la scherma.

Le tre esse di Bebe. Scherma, scout e scuola sono le mie tre “esse” principali e sono le cose che mi hanno sempre accompagnato da quando ero piccola. Io ho iniziato scherma a cinque anni, poi gli scout a otto e, vabbè, la scuola da sempre. E quindi sono sempre stati i miei tre punti fissi, se la mia giornata era composta da queste tre cose, allora era una buona giornata. Quindi da dopo la malattia, da quando sono stata male, il mio scopo era riuscire a riprendere tutte e tre le “esse”. Man mano l’ho riprese tutte: la scuola era la prima, poi sono tornata a scout, dopo un annetto più o meno – ché dovevo riprendermi un attimo fisicamente – sono ritornata a fare scherma che – diciamo – era la più importante per me. E quindi man mano si va avanti ed è stato bellissimo: quando ho capito che ce l’avevo tutte finalmente tutte e tre, e tutte bene, è stata una grandissima soddisfazione.

L’incontro con la scherma. Ho fatto per due anni ginnastica artistica, dai tre ai cinque ho fatto ginnastica artistica, poi ho scoperto che nella ginnastica artistica non c’era solo la gara ma c’era anche il saggio, e io la cosa del saggio non la riuscivo a capire. Faccio: «Mamma, che si vince?» «No, devi far vedere a mamma e papà cosa hai fatto in questi anni di ginnastica artistica, cosa hai fatto devi farci vedere». Faccio: «Ho capito, ma cosa si vince?». «Non vinci niente, devi solo farci vedere». «Ah, allora non mi interessa!». E quindi ho lasciato perdere tutto, sono andata a fare uno sport che richiedeva un po’ più di agonismo, per cui sono andata a fare pallavolo. Dopo mezza lezione, ho preso e sono scappata. Io sono una di quelle che se una cosa che fa non le piace, prende e se ne va. Cioè non faccio niente per obbligo, lo faccio solo se una cosa mi piace e se mi diverto. […] E quindi sono scappata da questa palestra, andando nel corridoio ho visto quest’altra porta aperta, ho visto tutti questi zorri bianchi, bellissimi. Mi sono messa là, mi sono seduta, poi è arrivato il mio primo maestro, che è Gastone Gal che adesso allena a Padova, è venuto lì, mi ha visto lì seduta per terra, piccoletta, mi ha chiesto se volevo provare e da lì […] mi sono innamorata e basta. 

Una famiglia compatta. Tutti i miei obiettivi erano comunque obiettivi familiari e secondo me, quando succede qualcosa a una persona, se ha una bella famiglia dietro, alla fine non colpisce solo quella persona, ma colpisce tutto il gruppo. Noi siamo in cinque in famiglia quindi, quando ho avuto la malattia io, è come se l’avessimo avuta tutti. E quindi siamo sempre stati molto uniti e l’obiettivo di uno diventava l’obiettivo di tutti. Quindi quando io ho detto che volevo tornare a fare scherma, tutti quanti ci siamo impegnati a mille per riuscire a tornare a fare scherma. E quindi sicuramente non era stata solo una cosa mia, ma è stata una cosa di tutti e, se non fosse stato per i miei genitori e per i miei fratelli, non penso sarei mai tornata, non sarei manco uscita dall’ospedale.

Riuscire a far capire agli altri che io senza il braccio potevo tirare all’inizio è stata dura, perché dicono che senza le tre dita, che sono pollice, indice e medio e il polso, non si possa fare scherma

Una nuova partenza. La mia mamma mi ha sempre detto che sono rompiballe più che testarda, o anche strozzabile ogni tanto. E quindi in realtà il mio forse essere così rompiballe mi ha aiutato tantissimo in questi anni. Io finché non ottengo quello che voglio non mi fermo e quindi vado avanti, vado avanti, vado avanti finché non ce l’ho. […] Anche riuscire a far capire agli altri che io senza il braccio potevo tirare all’inizio è stata dura, perché dicono che senza le tre dita, che sono pollice, indice e medio e il polso, non si possa fare scherma. E quindi bisognava riuscire a convincere quelli del Centro protesi a fare una protesi apposta, riuscire a ripartire, riuscire a capire e anche a cambiare un po’ la mia scherma, per riuscire a farla più simile a quella vera, perché insomma è senza il movimento del polso che è un po’ dura. Però alla fine, avendo i movimenti da quando sono piccola, mi è riuscito abbastanza bene.

La malattia. Io dell’ospedale non ne ho mai parlato ma perché non trovo il senso. Spesso in televisione arrivano: «Ah, come è andata in ospedale? È stata dura?». Proprio abbassano anche il tono della voce, ti guardano con gli occhi lucidi. Io quelle sono le cose che proprio non sopporto, perché se parli della malattia, parli perché ha un senso parlarne. Infatti io quando ne parlo, e ne ho parlato appunto nel libro che abbiamo scritto, io ne parlo solo per far capire che anche con una sfiga terribile puoi riuscire a fare grandi cose. […]

Se parli della malattia, ne parli perché ha un senso parlarne. Infatti, io quando ne parlo, lo faccio solo per far capire che anche con una sfiga terribile puoi riuscire a fare grandi cose.

Quei 104 giorni in ospedale. In realtà mi sono divertita un sacco, perché mi avevano spiegato già in ospedale che tutte le cose brutte le avresti dimenticate e ti saresti ricordato solo quelle belle. All’inizio non ci credevo, poi in realtà è così: ho scoperto veramente che le cose brutte si autoeliminano nel cervello. E quindi per me quei 104 giorni sono una figata. Mi ricordo tutte le persone che venivano a trovarmi, che venivano anche gli insegnanti per farmi recuperare le ore perse a scuola, che venivano un sacco di amici, che potevo guardare la televisione tutto il giorno, che potevo mangiare quello che volevo, perché quando ero lì la mia mamma mi cucinava tutto quello che volevo e poi anche perché dovevo mettere su ciccia e insomma potevo veramente mangiare di tutto. E quindi me lo ricordo veramente come un periodo stupendo. In realtà poi ogni tanto i miei mi ricordano che non era proprio così, però in realtà io mi sono divertita alla fine, quello che mi ricordo è tutto bello. Però, insomma, se una persona potesse non passare queste cose sarebbe meglio, forse.

Vigorso di Budrio. Io sono andata a Budrio, che appunto è vicino Bologna, sono andata per due mesi per imparare a usare le protesi, perché li c’è questo grande Centro dove tutti ti mandano per riuscire a imparare a ritornare alla vita normale, da lavarsi i denti ad allacciarsi le scarpe, ad aprire una finestra, ti dimentichi tutto: stando tanto tempo senza braccia e senza gambe, non sai più fare niente. E quindi lì è proprio allenamento tutti i giorni, tutte le mattine andavo e camminavo, facevo tutti i percorsi, lì anche era divertente perché c’era la wee balance board. E quindi dovevo giocare per la wee per migliorare l’equilibrio, e quindi era una figata. Mentre tutti i pomeriggi dovevo andare a imparare a fare le cose, terapia occupazionale, insomma: quindi accendere la luce, tutto, tutto da capo. Per me è stato un periodo bellissimo, perché è come tornare piccoli.

Fuori dall’ospedale. Quando sono uscita dall’ospedale mi ha fatto strano che tutte le persone andando in giro mi guardavano: «Oddio, chi è questa? Cosa ha fatto?», eccetera eccetera. In realtà non mi ha mai dato fastidio, perché penso che una persona se ti guarda sia per curiosità, perché non è una cosa strana, è una cosa diversa, anzi adesso apprezzo ancora di più una persona che mi guarda e spesso, quando qualcuno mi guarda, vado lì e gli spiego come funzionano le mani. Dico: «Guarda…». […] Una volta che glielo spieghi non solo si divertono, anzi poi ti rubano le mani e iniziano a giocarci. Infatti in classe mia è un macello, sto più tempo senza mani che con, perché quando c’è qualcuno che si annoia mi chiama da dietro: «Bebe, passami la mano che mi diverto». E quindi alla fine diventa una rottura di balle.

La scoperta del mondo paralimpico. Io non conoscevo nessuno di tutto il mondo paralimpico della scherma, non conoscevo veramente nessuno, solo quelli in piedi. E quindi quando ho riniziato, ho conosciuto tutto questo mondo fantastico, che tutti pensano che siano dei disabili e vedono i disabili come degli sfigati, ma in realtà non capiscono. Poi, quando le porti nel mondo paralimpico, le persone si innamorano ancora di più dello sport, secondo me, perché capiscono come devi farti un mazzo tanto di più per riuscire a fare una cosa che magari in piedi sembra semplicissima.

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