Antonio Maglio Cairo (Egitto) 1912-1988

Può essere considerato come il padre del movimento paralimpico in Italia. Nato a Il Cairo, in Egitto, medico e neuropsichiatra, segue le orme del neurologo Ludwig Guttmann che, nella piccola città di Stoke Mandeville, alle porte di Londra, usò per primo la sport-terapia per curare i reduci di guerra e ideò i primi Giochi internazionali per disabili. Maglio trasferisce i suoi insegnamenti nel Centro Paraplegici di Ostia “Villa Marina”, inaugurato dall’Inail nel 1957. Nel 1960, in concomitanza con le Olimpiadi, riesce a portare i Giochi di Stoke Mandeville a Roma, dando luogo alla prima Paralimpiade della storia

Può essere considerato come il padre del movimento paralimpico in Italia. Nato a Il Cairo, in Egitto, medico e neuropsichiatra, segue le orme del neurologo Ludwig Guttmann che, nella piccola città di Stoke Mandeville, alle porte di Londra, usò per primo la sport-terapia per curare i reduci di guerra e ideò i primi Giochi internazionali per disabili. Maglio trasferisce i suoi insegnamenti nel Centro Paraplegici di Ostia “Villa Marina”, inaugurato dall’Inail nel 1957. Nel 1960, in concomitanza con le Olimpiadi, riesce a portare i Giochi di Stoke Mandeville a Roma, dando luogo alla prima Paralimpiade della storia

Il ritratto di Antonio Maglio nel ricordo della moglie Maria Stella Calà

Antonio Maglio è stato il pioniere della riabilitazione del medulloleso in Italia. La storia nasce […] a Palestrina, perché il professor Galasso che era un medico, un neurologo consulente dell’Inail – mio marito era anche lui funzionario dell’Inail – gli disse: «Maglio. andiamo a vedere dei ragazzi che sono paralizzati a Palestrina, perché io non riesco a capire che cosa possono avere». Sono andati, hanno visto i ragazzi, erano paralizzati e Maglio disse: «È una lesione del midollo, questi non cammineranno mai più. E che facciamo? Li lasciamo così a letto, per sempre?». […] E quindi nacque in lui questo sentimento di poter fare qualche cosa, non solo per questi ragazzi, ma per tutti i casi che si dovessero poi successivamente ripetere. E lui come funzionario dell’Inail andò in direzione, dopo aver fatto intelligentemente delle ricerche per vedere se in Italia ci fosse stato qualcosa del genere. In Italia non c’era assolutissimamente niente. E trovò solo a Londra, a Stoke Mandeville, trovò questo centro dove Guttmann riabilitava i reduci di guerra. Era un neurologo e come tale interveniva nel recupero. […] E così, per ritornare all’Inail e all’Italia, […] nacque il Centro Paraplegici di Ostia, che si chiamava “Villa Marina”, e fu aperto e inaugurato il 1 giugno del ’57.

Poche cose mi ha detto, ma quelle che mi ha detto adesso, dopo tanto tempo, mi fanno capire quanto sia stato per lui importante l’aspetto umano, perché lui ha fatto tutto questo – e io ne sono convinta – per un atto di generosità

L’intervento psicologico. Antonio Maglio nell’approccio terapeutico dava primaria importanza a quello che era l’intervento psicologico. Perché? Perché erano dei potenziali suicidi: quando una persona passa da uno stato di normalità a uno stato di disabilità sicuramente, e poi a quell’epoca – dobbiamo anche immedesimarci nel momento storico in cui stavamo –, la persona poteva anche perdere la testa ed era normalissimo. [Li salvò tutti] tranne un ragazzo. Lui mi disse: «Non sono riuscito a salvarlo». Perché poche cose mi ha detto, ma quelle che mi ha detto sicuramente adesso, dopo tanto tempo, mi fanno capire quanto sia stato per lui importante l’aspetto umano, perché lui ha fatto tutto questo – e io ne sono convinta – per un atto di generosità.

Il dolore di Maglio. Sicuramente oltre al fatto di Palestrina è scaturito anche dal dolore che aveva dentro Antonio Maglio per la morte del figlio di primo letto, un bambino che è morto di meningite a sei anni e che gli ha segnato la vita. Questo lui non me l’ha mai detto, però io ne sono profondamente convinta anche perché, a pochi giorni della morte di mio marito, io l’ho visto qui vicino alla scrivania, con questa fotografia: la stava guardando e stava piangendo. Io non l’ho guardato, però ho capito che il suo animo era proiettato lì, quindi voleva soltanto riuscire a fare del bene per distrarsi pure da un dolore troppo forte.

La genialità di un uomo. Era un genio! Io lo definisco un genio perché intanto ha scritto della musica e non conosceva la musica, ha cantato una canzone e non sapeva cantare, perché era stonato […]. Lui sapeva condurre un ospedale, lui al Centro Paraplegici di Ostia non solo era il primario, ma era il direttore sanitario, era tutto. Quindi gestiva, organizzava e soprattutto gestiva con umanità ma con autorevolezza, con molto amore e con molta decisione.

Dalla parte delle persone disabili. A Ostia lui si è inventato tutto, ha creato tutto lui. E io gli chiesi, leggendo qualcosa dei suoi lavori: «Ma scusa, Antonio, ma tu questi tutori, tutte queste cose che tu hai inventato, creato, ma non li hai brevettati?». Stava facendo la barba, proprio in questo bagno qua, vicino, mi disse: «No, io non li ho brevettati, perché sarebbe costati di più alla persona disabile». Continuando a farsi la barba, proprio così. E io ho insistito: «Tanto non li hai brevettati tu, ma qualcun altro li ha brevettati». Dice: «Però non sono stato io».

Stella e Antonio. Io ho conosciuto Antonio Maglio da sempre, perché abitavamo nello stesso palazzo. Lui mi ha visto crescere e io sapevo chi era lui. Partiva tutte le mattine alle sette e mezza con la sua macchina e, quando andava bene, tornava alla sera alle nove, se non addirittura la sera successiva. E una mattina io tornavo da Cortina d’Ampezzo, avevo 38-39 anni, e lui mi vide. Tornava, era una domenica, portava a passaggio il suo cane. Mi disse: «Ciao Stella, come stai? Accipicchia, come ti sei fatta bella». «Eh, professore, si fa quel che si può!». «Allora – dice – vediamoci, no?». Perché [prima di questo] io gli dissi: «Professore, guardi, io sono arrivata a questa mia età, ma non trovo nessuno che sia di mio gradimento». E dissi una frase, che non lo so chi me l’ha fatta dire: «Ma anche se incontrassi una persona più grande di me, io mi sposerei». Ma lungi da me pensare a lui, figuriamoci, anche perché lui poi aveva una sua compagna. E lui immediatamente prese al volo la cosa e mi disse: «Allora quando ci vediamo?» Io sono rimasta stravolta. «Va bene, ti telefono domani mattina». La mattina dopo mi chiamò in banca, perché io lavoravo in banca, e da lì in un anno e mezzo, massimo due, ci siamo sposati. Questa è la storia.


E visti i risultati che riusciva a ottenere da questi ragazzi, impegnandoli nello sport, ne parlò con Guttmann di questa sua pazza idea di fare le Olimpiadi, le prime Olimpiadi del ’60.

Le prime Paralimpiadi della storia. A Roma ’60, si è arrivati a partire sempre dalla creazione del Centro Paraplegici di Ostia, di “Villa Marina”, come detto, il 1 giugno del ’57. Lui aveva già mutuato l’esperienza di Guttmann, perché Maglio si può assolutamente considerare un allievo di Guttmann, e aveva introdotto questa sport-terapia nel Centro di Ostia. […] Il suo più grande atleta, che adesso è deceduto, è stato Roberto Marson, definito da Antonio Maglio come l’atleta più completo che lui abbia mai avuto e, visti i risultati che riusciva a ottenere da questi ragazzi, impegnandoli nello sport, ne parlò con Guttmann di questa sua pazza idea di fare le Olimpiadi, le prime Olimpiadi nel ’60. E Guttmann disse: «Siamo convinti?». Insomma, i tempi sono brevi, perché dal ’57 al ’60, tre anni, voi m’insegnate che non si può creare una squadra paralimpica, atleti di un certo spessore, che vanno a competere con altre nazionalità, e portarli sul campo. Però lui vinse questa sfida, perché riuscii a creare atleti, che poi all’epoca erano atleti Inail, indossavano la maglia Inail, riuscì in tre anni a portare la squadra paralimpica nel mondo, perché l’ha portata nel mondo. [I Giochi] si sono svolti a Roma, ma [la squadra] è stata conosciuta nel mondo. [Mentre] l’Inail è uscito fuori come l’istituto che è riuscito in questa titanica impresa.

Come una famiglia. Erano i suoi figli. Sicuramente erano i suoi figli. Se una persona disabile si ammalava in maniera grave, […] stava lì vicino al letto del paziente, fintanto che non si rimetteva in piedi, in carrozzina – io dico in piedi, perché per me la normalità è anche parlarne in maniera normale –, lui non andava via, non si assentava, non tornava a casa. Ecco perché dicevo, quando vedevo tornare la macchina e quando non la vedevo, perché si tratteneva presso il Centro. A Natale, le feste comandate, le passava con loro. Lui si era integrato perfettamente con questo mondo e voleva che anche il mondo lo trattasse allo stesso modo.

La squadra di basket del Santa Lucia. Con l’avvento delle Regioni il Centro è passato alle Asl; lui ha tentato in ogni modo di rimanere, rinunciando anche alla promozione data dall’Inail come sovrintendente medico generale, che lui rifiutò. Dice: «Lasciatemi qui al Centro per continuare questa opera», ma chiaramente [questa richiesta] non è stata accolta. E per lui è stato un po’ un trauma, perché i suoi ragazzi erano la sua vita, sì. È entrato poi nella Fondazione Santa Lucia, dove ha creato la squadra più scudettata d’Italia: lui è stato l’allenatore, il preparatore atletico, ha fatto di tutto. Infatti [è stata] la prima squadra che si è venuta a creare, che poi ha portato competizione, perché quando una squadra raggiunge alti livelli chiaramente gli altri vogliono arrivare pure loro: questa è la competizione sportiva.

Aiutali solo se ti chiedono aiuto. Appena ho cominciato a entrare in questo mondo, ho fatto molto umilmente una richiesta: «Ma io come mi devo comportare?». Perché certo un momento di sconcerto la persona normale ce l’ha. Questo è evidente, è normale. Lui mi ha risposto: «Trattali come se fossero persone normali. Aiutali solo se ti chiedono aiuto». Testuali parole: né una di più, né una di meno.

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